Abbiamo ridotto Dio ad una materia di
studio deformando il senso del verbo “conoscere”. Applichiamo gli stessi schemi utilizzati per
le persone: crediamo (erroneamente) di conoscere qualcuno solo perché abbiamo appreso
qualche dato biografico e dei frammenti della sua storia. Non controlliamo le
fonti, non contestualizziamo le vicende e non ci si confrontiamo con il diretto
interessato. Per conoscere (e comunque sempre parzialmente s’intende) occorre
condividere la vita, osservare le opzioni, le priorità, ascoltare i
ragionamenti e leggere eventuali scritti. Di Dio conosciamo alla fine una cosa
sola: il cuore. Eppure continuiamo gli sforzi patetici per comprenderne la
natura e per scoprirne i segreti della creazione. Ma Dio non ci chiede di
indagare o di esplorare ma di imitare la sua compassione. Nel vangelo si parla
della misericordia del Padre, della solidarietà del samaritano, delle
guarigioni non di organizzare missioni spaziali. È la tentazione mai sconfitta
di voler diventare come Dio (nel senso di potente secondo la nostra ingannevole
immaginazione) tralasciando e rinnegando ciò che invece ci restituisce alla
nostra piena umanità. Un uomo capace di andare sulla luna ma privo di
compassione è solo una caricatura. Le invenzioni ci danno (falsa) sicurezza appagando
la nostra compulsione di dominio. Rispondono ad una sindrome, non ai quesiti
della nostra anima. Con la tecnica illuminiamo il mondo intero ma non le nostre
tenebre. Tutta la nostra cultura funzionale balbetta miseramente davanti alle
questioni esistenziali. Più che di analfabetismo digitale si dovrebbe parlare
di analfabetismo spirituale come grave malattia che attanaglia soprattutto l’Occidente.
Teologia dei poveri.