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Iqbal Masih: la denuncia

Qui non sappiamo niente di lui (1), vediamo solo i tappeti ripuliti del sangue dei bambini che ci hanno lavorato. Quei tappeti che rallegrano la vista dei ricchi e ne raccolgono la polvere, ingrassano gli sfruttatori e tolgono la vita ai piccoli.

Qui non sappiamo niente delle officine-alveari dove vengono cuciti gli abiti che poi compriamo nelle nostre luccicanti boutique. Quegli abiti con cui conquistiamo il mondo. O più verosimilmente lo sguardo viscido di qualche passante.

Qui non sappiamo niente dei raccoglitori agricoli, vediamo solo i pomodori (o simili) lucidati nei nostri supermercati. Prodotti naturali che ci appaiono senza storia e soprattutto senza le tracce della disperazione dei migranti utilizzata dai caporali di ogni specie.

Qui non sappiamo niente del precariato, vediamo solo insegnanti e ricercatori cambiare di continuo e tanti giovani lavorare a giorni/mesi alterni. Vite distrutte dall'indeterminatezza che non riescono a reagire perché irretite dalle illusioni dell’individualismo.

Qui non sappiamo niente della disoccupazione, vediamo solo che si allungano le file alle mense sociali. Dicono che non possono essere ricollocati. Espulsi dal mercato perdono il diritto di vivere. Mantengono per ora quello di sopravvivere.

E anche sapendo tutto, nessuno si prende la responsabilità di iniziare a cambiare.
Iqbal ha denunciato lo sfruttamento ed ha contribuito a liberare tanti altri bambini. Per questo è stato ucciso. 
Tocca a chi è rimasto, continuare.
“Di una cosa sola ti prego: non dimenticare niente. Neanche il più piccolo, insignificante particolare. Raccontala a qualcuno la nostra storia. Raccontala a tutti. Che non se ne perda il ricordo” (2).

(1) Qualche notizia sulla storia di Iqbal Masih
(2) Dalla lettera che annuncia la morte di Iqbal, in Francesco D’Adamo, Storia di Iqbal, Edizioni EL, San Dorlingo della Valle (Trieste) 2001, p. 147