È sempre
più urgente purificare dal maschilismo la relazione con Dio. Non ci può essere
autentica vita spirituale senza uno sguardo al femminile sulla realtà, sul mondo
interiore e sui rapporti sociali.
«Ad Èfraim io insegnavo a camminare tenendolo
per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con
legami di bontà, con vincoli d’amore; ero per loro come chi solleva un bimbo
alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare» (Osea
11,3-4)
Dio
agisce nelle profondità dell’essere, occorre immergersi più che elaborare. I
processi di razionalizzazione, o peggio di banalizzazione, rischiano di produrre
solo proiezioni e non incontri. E non basta, nemmeno, immergersi, ma è
necessario pure fare spazio, svuotarsi.
Infatti non si può accogliere l’altro,
con i suoi sentimenti, i suoi punti di vista, le sue esigenze se è già tutto
deciso, stabilito, cristallizzato. A dialogare con Dio, poi, è l’anima e solo indirettamente la ragione a cui arrivano dei frammenti che sono spesso
difficilmente decifrabili. Dio viene a guarire e a custodire dopo che ci siamo
persi e feriti inseguendo il nostro idolo: l’autosufficienza. Nasciamo su
iniziativa di altri, non sopravviviamo senza l’iniziativa di altri, ma prevale
la vanagloria dell’immagine di (falsa) forza sulla (vera) esigenza di trovare
un fondamento esistenziale e di testimoniare la solidarietà riconoscendo un
destino comune.
«Il mio cuore si commuove dentro di me, il
mio intimo freme di compassione» (Osea 11,8)
«Si dimentica forse una donna del suo
bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se
queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. Ecco, ti ho
disegnato sulle palme delle mie mani» (Isaia 49, 15-16)
Siamo
davvero i suoi figli, i nostri deliri di egoismo, i nostri rifiuti, le ombre
che gli nascondiamo lo toccano nelle viscere. Non è un dolore intellettuale,
per sentito dire, ma è il dolore della donna che somatizza. Non è il dolore di chi parla o scrive, ma è quello che toglie il respiro e ti piega. Una madre che
soffre, una vedova che piange il suo amato: è l’immagine di Dio che emerge da
questa prospettiva. Qualcuno coinvolto in quello che avviene, molto diverso
dal Giudice monocratico con il pollice su, in caso di osservanza del Codice
Morale, con il pollice giù, in caso di violazione, come risulta da alcine descrizioni. Un Giudice che valuta corrispondenze tra comportamenti e
regole, non una madre che giustifica e abbraccia il figlio anche se
colpevole.
«Chi è costei che sorge come l’aurora, bella
come la luna, fulgida come il sole, terribile come schiere a vessilli spiegati?»
(Cantico dei Cantici 6,10)
Ecco
l’anima che ha incontrato la Grazia, che è stata visitata da Dio. È sola, ma non smarrita. In silenzio e in attesa per
non prevaricare. Ecco l’anima che scoprendo la femminilità può incontrare il
suo Dio e comprendere qualcosa di più. E, cioè, le cose più belle: quelle solo
intuibili, quelle non di pubblico dominio, non classificabili, non
manipolabili. Ecco l’anima contemplativa e compassionevole che vive il tempo
dell’esilio preparando la cella del cuore per l’appuntamento (1) con il suo
Amato e praticando la giustizia nei confronti dei poveri, degli ultimi, dei prediletti
di Dio.
(1) «Che lui scavi nella tua anima il suo abisso
e tu sia qui sempre presente a lui» (Elisabetta della Trinità, Lettera nr 288 del
24/6/1906, in Opere Complete, a cura di Luigi Borriello, Paoline, Cinisello
Balsamo (Milano) 1993, p. 501