Dovremmo
sentire il dolore degli altri nelle nostre viscere e la loro sventura appartenerci,
essendo simile a quella che tocca a noi. Dovremmo evitare di somministrarci i potentissimi
anestetici che le istituzioni ci mettono a disposizione e leggere le cose da
dentro, indossandone i panni. Dovremmo ricordare di non profanare, con l’indifferenza
e la superficialità, il luogo sacro più importante: la sofferenza. Dovremmo camminare
sulla stessa strada della disperazione, scrivere la storia degli sconfitti
vivendola e subendola, calarci nell'abisso in cui sono stati relegati gli
invisibili. Dovremmo rifiutare cattedre e pulpiti, incoronazioni e riconoscimenti. Dovremmo
chiedere consigli agli esclusi e dare voce agli inascoltati. Dovremmo spezzare
schemi e rigidità, togliere la sordina alla profezia, spostare gli orizzonti.
Dovremmo ri-convertire le strutture impolverate dalla burocratizzazione dei
carismi e incrostate dall'autoreferenzialità delle gerarchie. Dovremmo denunciare e
combattere i sistemi economici e politici che valutano le persone in termini di
utilità, rifiutare collaborazioni e soprattutto finanziamenti in cambio di una “pacifica”
(nel senso di connivente) convivenza. Dovremmo, ma non ne abbiamo la forza.
E allora preghiamo Dio che ci guidi «su
rupe inaccessibile» (1) per insegnarci le sue vie e per liberarci da tre invincibili paure: del condividere, del nulla, della libertà.
(1) Salmo 61