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Don Lorenzo Milani: parola dura e affilata

Il linguaggio utilizzato da Don Lorenzo Milani era di tipo profetico, con denunce circostanziate e coraggiose. La ricerca della giustizia prevaleva sul calcolo.
Denuncia profetica.

«Come avrai osservato io non misuro molto le parole, né calcolo mai cosa convenga dire e cosa tacere. E questo fa parte di un preciso programma, cioè quello di ottenere la fiducia dei ragazzi e del popolo e educare gli uni e gli altri a fare altrettanto» (1).
«Ci vuole una parola dura, affilata, che spezzi e ferisca, cioè una parola concreta» (2).

Gli equilibrismi offendono le vittime e rassicurano gli oppressori. La parola equidistante è una parola iniqua. Infatti la parola di pace autentica presuppone la verità e la giustizia. Per riscattare l’impoverito occorre una parola provocatoria e paradossale che scuota dal torpore le coscienze, denunci le connivenze ed interrompa gli ossequi riservati alle classi dominanti. La logica del suddito non appartiene al cristiano. Il Vangelo chiede di sovvertire le strutture di peccato che calpestano orfani e vedove, cioè tutti gli indifesi ai quali Gesù rivolge il lieto messaggio della liberazione (3). Quindi niente fughe o ripiegamenti, ma contrasto profetico e azione carismatica per far avanzare il Regno di Dio, non contando sulle proprie forze, ma riponendo -secondo l’insegnamento di Maria- tutta la fiducia in «Colui che ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi» (4).

Rinnegare il paradigma non evangelico.

«Finché gli industriali vedranno i poveri [asciugare] i loro risparmi e perfino indebitarsi per scimmiottare, per esempio nei matrimoni, le carnevalate offensive dei borghesi, non avranno da aver paura. Quelli son poveri di fatto, borghesi nel cuore. Roba che si sconfigge facilmente con le gratifiche, il miracolo economico, gli aumenti di stipendio, gli elettrodomestici» (5).

La liberazione annunciata da Cristo, a costo della propria vita, non consiste certamente nell'inversione dei ruoli tra oppresso e oppressore. Non c’è cosa più inquietante –ed è fenomeno purtroppo diffuso- della deriva degli sforzi di emancipazione, in semplice e inaccettabile sostituzione nell'esercizio dell’iniquità. La liberazione passa per il rinnegamento del paradigma dei padroni ed, invece, per impreparazione, per debolezza o per ricatto, l’oppresso, spesso, tende ad assorbirlo. Quando lo sfruttato collabora docilmente ai processi schiavizzanti, non solo impedisce il proprio riscatto -annullando il dono di Cristo-, ma ostacola e ritarda il riscatto dei fratelli che si trovano nella medesima condizione. Imitare il padrone, credere nei suoi (dis)valori, prostrarsi davanti ai sui idoli (potere e denaro) significa: rifiutare Cristo, preferendogli il Faraone e rinnegare se stessi, accettando la reificazione per necessità. L’oppresso che, invece, fa l’opzione per la libertà affronta il deserto (solitudine, pericolo, incertezza) e la croce (persecuzione, sofferenza/morte, riprovazione), ma realizza la vocazione di uomo, immagine di Dio.

(1) Don Lorenzo Milani 20/5/1953, citazione in Lettere di Don Lorenzo Milani, Priore di Barbiana, a cura di Michele Gesualdi, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo-Milano 2007, p. 37
(2) Don Lorenzo Milani 3/9/1958, citazione in Lettere di Don Lorenzo Milani, Priore di Barbiana, a cura di Michele Gesualdi, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo-Milano 2007, p. 103
(3) Cfr. Vangelo di Luca 4,16-19
(4) Vangelo di Luca 1,52-53
(5) Don Lorenzo Milani 27/12/1961, citazione in Lettere di Don Lorenzo Milani, Priore di Barbiana, a cura di Michele Gesualdi, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo-Milano 2007, p. 186

Foto Pixabay

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